Riassunto |
Il canto tredicesimo dell' Inferno di Dante Alighieri si svolge nel secondo girone del settimo cerchio, ove sono puniti i violenti contro sé stessi; siamo all'alba del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.
I due poeti si addentrano nel secondo girone del settimo cerchio, in un bosco di piante secche, contorte e spinose, abitato dalle mostruose Arpie, uccelli dal volto umano. Non si vedono anime di peccatori, ma se ne odono i lamenti. |
Parafrasi |
Non era ancor di là Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato. |
Nesso non era, ancora arrivato di là (dal guado), quando noi entrammo in un bosco che non aveva alcuna traccia di sentieri. |
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Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco: |
Non c’erano foglie verdi, ma di colore scuro; non rami lisci e diritti, ma nodosi e contorti; non frutti, ma spine con veleno: |
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non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.
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Parafrasi: quegli animali selvaggi che (in Maremma) tra il fiume Cecina e la località di Corneto odiano i luoghi coltivati, non hanno (per loro dimora) macchie così irte e pungentì e così folte. |
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
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Qui fanno i loro nidi le sozze Arpie, che costrinsero alla fuga dalle isole Strofadi i Troiani con la funesta profezia di mali futuri. |
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Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.
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E 'l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se' nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre
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E 'l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se' nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre
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che tu verrai ne l'orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».
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Io sentia d'ogne parte trarre guai,
e non vedea persona che 'l facesse;
per ch'io tutto smarrito m'arrestai.
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Cred'io ch'ei credette ch'io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi
da gente che per noi si nascondesse.
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Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d'una d'este piante,
li pensier c'hai si faran tutti monchi».
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Allor porsi la mano un poco avante,
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».
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Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
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Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb'esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».
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Come d'un stizzo verde ch'arso sia
da l'un de'capi, che da l'altro geme
e cigola per vento che va via,
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sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond'io lasciai la cima
cadere, e stetti come l'uom che teme.
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«S'elli avesse potuto creder prima»,
rispuose 'l savio mio, «anima lesa,
ciò c'ha veduto pur con la mia rima,
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non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.
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Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece
d'alcun'ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».
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E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi,
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
perch'io un poco a ragionar m'inveschi.
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Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
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che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi:
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.
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La meretrice che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
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infiammò contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,
che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.
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L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
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Per le nove radici d'esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d'onor sì degno.
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E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che 'nvidia le diede».
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Un poco attese, e poi «Da ch'el si tace»,
disse 'l poeta a me, «non perder l'ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».
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Ond'io a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch'a me satisfaccia;
ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora».
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Perciò ricominciò: «Se l'om ti faccia
liberamente ciò che 'l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia
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di dirne come l'anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s'alcuna mai di tai membra si spiega».
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Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.
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Quando si parte l'anima feroce
dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.
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Cade in la selva, e non l'è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.
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Surge in vermena e in pianta silvestra:
l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.
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Come l'altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch'alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie.
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Qui le trascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta».
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Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch'altro ne volesse dire,
quando noi fummo d'un romor sorpresi,
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similemente a colui che venire
sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
ch'ode le bestie, e le frasche stormire.
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Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogni rosta.
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Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte
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le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d'un cespuglio fece un groppo.
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Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch'uscisser di catena.
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In quel che s'appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
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Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea,
per le rotture sanguinenti in vano.
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«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che t'è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».
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Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo,
disse «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».
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Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c'ha le mie fronde sì da me disgiunte,
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raccoglietele al piè del tristo cesto.
I' fui de la città che nel Batista
mutò il primo padrone; ond'ei per questo
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sempre con l'arte sua la farà trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,
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que' cittadin che poi la rifondarno
sovra 'l cener che d'Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
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Io fei gibbetto a me de le mie case».
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Commento |
La violenza è il tema dominante dell'episodio e ciò è evidente fin dall'inizio, con la comparsa del Minotauro. |
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Purgatorio |
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